Stanze di luce di Angela Madesani

Non è questa una biografia di Sara Frattini, ma è opportuno raccontare il suo intenso cammino nel mondo dell’arte per comprendere le sue scelte, i suoi passaggi, le sue opere. Una cosa è certa, protagonista del suo lavoro, nelle sue diverse espressioni, è la luce, che si manifesta o si nasconde, che agisce comunque e che crea. I lavori realizzati negli ultimi dieci anni, di cui questo scritto si occupa, sono sculture di luce realizzate con materiali diversi. Nulla è prevedibile, scontato, ma un fil rouge saldissimo percorre e lega le sue opere. Con lei ci troviamo di fronte a un’artista del fare, “affetta” da una grande manualità, che viene dal mondo dell’architettura, del design, del progetto. Mi piace specificare sin da subito che il suo avere operato e operare in mondi paralleli a quello dell’arte con la “a” maiuscola, non costituisce un limite, è anzi spunto, stimolo che Frattini ha masticato, ha metabolizzato, ha trasformato per giungere agli attuali lavori.
Nel suo studio, a Varese, si respira un’atmosfera laboratoriale di ricerca continua. Il suo è un atteggiamento aperto, curioso nei confronti del circostante, che l’artista percepisce come una fonte di stimoli.  

La sua storia professionale inizia oltre trent’anni fa, quando già al liceo collabora con professionisti di vari ambiti dalla grafica all’architettura al design. Già in quel periodo sente, però, l’esigenza di un approfondimento teorico del suo lavoro manuale. Lo studio della storia dell’arte l’appassiona, in casa ha l’opportunità di incontrare amici artisti del padre e del nonno, ma la sua voglia di autonomia la spinge ad andare oltre, ad affacciarsi ad altri lidi.
Negli anni Ottanta s’iscrive alla Scuola Politecnica di Design a Milano, fondata e diretta da Nino Di Salvatore, che ventiquattrenne, nel 1948, aveva aderito al MAC e aveva iniziato lo studio della psicologia della Gestalt, che diviene punto di partenza per la sua esperienza didattica. Nel 1950 pubblica Il problema spazio in cui la stessa Gestalt è proposta come struttura psicopercettiva delle arti. Principio questo che avrebbe avuto una forte influenza sugli allievi della scuola, fra i quali Sara Frattini.
Il problema della percezione, come proposto dalle teorie gestaltiche diviene sin da quegli anni interesse precipuo per l’artista varesina: «Il tutto è più della somma delle singole parti», la appassiona il concetto di spazio ambiguo. In questi anni, quelli della formazione universitaria inizia, inoltre, a leggere libri di filosofia orientale. È affascinata dai contrasti: presenza e assenza, pieno e vuoto e molto altro. Un mondo, quello del pensiero orientale, che ancora oggi è al centro dei suoi interessi, del quale molte tracce si colgono nel suo lavoro. Attraverso Nino Di Salvatore conosce Giulio Manfredi, designer e gioielliere, che la prende a lavorare con sé, la sprona a viaggiare, ad andare a vedere mostre, musei, a studiare, ad approfondire, a spaziare fra i vari ambiti del sapere. Con Manfredi lavoravano personalità del calibro di Bruno Munari, che Frattini conosce e apprezza, al quale dedica Scultura mobile (1990 circa). Un oggetto, un’opera che ha anche un altro dedicatario, Gianni Colombo, artista geniale al quale l’artista, nel corso degli anni, ha guardato con molto interesse.
In quegli anni di formazione, Sara collabora con un suo docente, Attilio Marcolli, che insegna, oltre che alla Scuola Politecnica di Design, al Politecnico di Milano, dove è docente di Tecnologia dell'Architettura, con lui approfondisce il concetto di progettazione nell’ambito del design. Finita la scuola fondata da Di Salvatore, si iscrive a Brera, ai corsi di Scenografia, ha bisogno di imparare a gestire la sua manualità. Si confronta così con il mondo dell’arte. In questo periodo pone le sue prime riflessioni sul concetto di luce, fondamentale per il suo percorso futuro. Dopo queste esperienze si iscrive, alla facoltà di Architettura al Politecnico di Milano, dove si laurea alla fine dei Novanta.


I primi lavori di ricerca artistica ai quali si dedica sono costituiti da specchi, lamiere specchianti in cui è una piccola fascia di metallo che chi guarda deve spostare all’altezza dei propri occhi impedendo così la vista degli stessi nello specchio. È un effetto straniante. «Senza potersi vedere negli occhi, si cambia completamente l’idea della visione». In esse pone in dialogo superfici concave e convesse, partendo sempre da tridimensionalità geometriche. Il cuore della ricerca è di matrice percettiva. Anche qui si alternano presenza e assenza. Le interessa particolarmente il concetto di vuoto, forse affascinata da quanto stava scoprendo a Villa Panza, a Biumo.
Nello stesso periodo dà, inoltre, vita a delle strutture per via di levare, per utilizzare un gergo della scultura michelangiolesca.
Ma tutto questo è come un esercizio più o meno quotidiano, per giungere a quanto veramente le interessa. Lavorare sui fili, con i fili, con essi creare strutture. Intitola alcune di esse Haiku e la scelta del titolo non è casuale. L’haiku infatti è una forma poetica della letteratura giapponese di sole 17 sillabe sullo schema 5-7-5. Frattini li realizza dal 2015: «Creo degli haiku visivi in cui sostituisco la geometria alla parola». Una questione di minimi, in perfetta armonia con la sua ricerca: i lavori sono leggeri, poetici, costituiti da giochi di ombre. Nessun orpello, nulla che non sia strettamente necessario all’esito finale.
Sono opere contraddistinte dalla leggerezza sia poetica, tattile che percettiva, che non significa vacuità di contenuti, anzi. La leggerezza alla quale l’artista aspira è di matrice filosofica, spirituale, in tal senso potremmo scomodare Calvino con le sue Lezioni americane.
Mi piace leggere i suoi lavori come l’esito di un cammino che ha condotto l’artista all’essenza, attraverso la luce che riesce a creare un gioco di pieni e di vuoti tesi a sottolineare la forma che si sdoppia attraverso la presenza dell’ombra con il suo carattere effimero, in procinto di scomparire. È la precarietà dell’esistenza della nostra “trista” condizione umana. In tutto questo la scelta dei materiali è determinante, sono dei fili flessibili di ottone, duttili e resistenti al tempo stesso.
Ombra e luce sono presenza e assenza sin dal mito platonico delle caverna, apparenza e verità. Riesce mai l’uomo ad arrivare al mondo delle idee? Probabilmente no, gli è dato solo confrontarsi con degli eidola, dei feticci.

Per lavori più recenti, che si leggono come dei parallelepipedi, ha utilizzato delle fasce di tessuto tecnico, che richiedono un lungo lavoro di preparazione della materia.
In tutto questo è una bidimensionalità che diviene tridimensionalità attraverso la luce. È un gioco percettivo sapiente, che muta a seconda dei diversi punti di osservazione. La tensione è verso il nulla, verso la sparizione tramite un continuo alleggerimento.
In alcuni lavori, che si tratti di fasce o di fili, Frattini ha utilizzato il colore, che ne sottolinea la profondità, il contrasto. Potremmo interpretare la sua scelta, ancora una volta, come una metafora esistenziale in cui sono i diversi momenti, il buio e la luce, la notte e il giorno, Yin e Yang alla base di molte filosofie orientali, simbolo della dualità di ciascun elemento dell’universo, due entità opposte e complementari che danno vita alla totalità. È nel suo lavoro, infatti, la tensione verso una forma di armonia cosmica.
Determinante per la sua ricerca, sin dall’inizio, è il rapporto con lo spazio, che si tratti della stanza, del palcoscenico, della parete, in cui interviene la luce per dare movimento, vita. In ognuna delle sue installazioni c’è un senso di teatralità in cui l’emotività svolge un ruolo di primo piano. La geometria delle sue forme perde la freddezza razionale che la contraddistingue per andare oltre, per trasformarsi e arricchirsi e divenire, citando Spinoza, geometria delle emozioni, che non devono essere condannate, ma solo comprese. Ciò che ogni giorno da molto tempo Sara Frattini si impegna a fare.